Ricostruire: come e perché
Indice
Iniziamo un viaggio nel passato
Gran parte del territorio italiano conserva la memoria incisa, per così dire, nelle pietre, dei terremoti distruttivi del passato e delle ricostruzioni che a questi sono seguite: tantissimi sono i paesi che hanno subito trasformazioni, le torri e i campanili che hanno mutato il loro profilo, le chiese e le abbazie, che sono state riparate o trasformate. E le case? Spesso interi abitati sono stati ridisegnati, e talvolta anche la rete insediativa di un’area è cambiata dopo un terremoto. È per queste ragioni che le ricostruzioni costituiscono un nodo storico dell’Italia. Chi decideva gli interventi di riparazione, e con quali criteri? A chi spettava il peso economico delle ricostruzioni? Le popolazioni danneggiate ricevevano aiuti per eseguire i lavori alle loro case? E di che tipo di aiuti si trattava? E infine: le amministrazioni del passato si preoccupavano di imporre ai privati e far rispettare una qualche regolamentazione edilizia? Nelle prossime pagine si darà qualche risposta, attraverso alcuni esempi, sul modo in cui le amministrazioni degli antichi stati italiani prima, e dello stato unitario in seguito, sono intervenute in aiuto delle popolazioni colpite da terremoti. Non si parlerà degli aspetti tecnico–ingegneristici, ma delle procedure burocratiche del passato, remoto e recente, per le ricostruzioni e le riparazioni.
Lo stato di conservazione dell’edificato in un’area sismica è un indicatore importante del livello di consapevolezza della popolazione che vi risiede. Mettendo in gioco economia, cultura e saperi tecnici una società esprime delle scelte: se proteggere le costruzioni e, in ultima istanza, tutelare le vite umane, o se lasciare al caso la risposta degli edifici e la sicurezza delle persone. Per quanto riguarda l’Italia circa il 65% dell’edificato delle aree sismiche è stato costruito prima delle normative antisismiche del 1980, e solo il 14% del totale delle abitazioni esistenti sul territorio nazionale è costruito sulla base di quelle norme, sostituite con nuove regole dopo il 2003.
Resta “scoperto” il patrimonio storico, affidato a restauri o recuperi, eseguiti anche a regola d’arte, ma il più delle volte senza tener conto della sismicità dell’area in cui si trovano.
Come si è ricostruito in passato?
Nei secoli che hanno preceduto la fondazione del nostro Stato, nell’attuale territorio italiano si sono succeduti e hanno convissuto diversi poteri politici e amministrativi: liberi comuni, piccole e grandi signorie, ducati, stati e regni indipendenti o assoggettati a potenze europee (Spagna e Austria principalmente). Ognuna di queste amministrazioni ha elaborato nel corso dei secoli risposte diverse ai terremoti che però, salvo poche eccezioni, sono stati per lo più interventi di ‘basso profilo’, vale a dire limitati a categorie di edifici, come quelli militari o ecclesiastici, e con parziale rinuncia dell’erario a introiti fiscali, attraverso gli sgravi di alcune tasse, senza progetti di spesa per il recupero complessivo dei danni. In tal modo l’onere delle riparazioni pesava in gran parte sui singoli individui, che, con l’eccezione dell’esigua fascia dei cittadini abbienti, dovevano farvi fronte con risorse economiche modeste.
Per quanto riguarda l’area di questo viaggio nel passato vedremo come i principali protagonisti amministrativi di quelle lontane ricostruzioni affrontarono il problema, adottando differenti strategie e ottenendo differenti risultati.((Queste pagine sono rielaborate da Viaggio nelle aree sismiche, di E. Guidoboni e C. Ciuccarelli, Bologna, seconda ed. 2007.))
Il peso delle ricostruzioni nella storia
11 aprile 1688, Romagna
Due stati confinanti, due diverse strategie di intervento, due diversi esiti
L’11 aprile 1688, alle ore 14:20 circa locali un violento terremoto colpì la bassa Romagna, tra le attuali province di Ravenna e di Forlì, più marginalmente di Bologna.
I danni più gravi furono concentrati la media valle del Senio.
L’area dei danni faceva allora parte dello stato Pontificio ed era amministrativamente divisa nelle due legazioni di Ferrara (la cosiddetta “Romagnola”, comprendente i paesi di Cotignola, Bagnacavallo, Russi, Lugo e Solarolo) e della Romagna (Ravenna, Faenza).
Più marginalmente fu colpito anche il territorio appenninico romagnolo, che apparteneva al granducato di Toscana (Terra del Sole, Castrocaro, Monte Poggiolo e Modigliana). Complessivamente, nell’area dei danni morirono oltre cinquanta persone.
La località più danneggiata fu Cotignola, nella media valle del Senio, nell’attuale provincia di Ravenna. Fu distrutta gran parte dell’abitato e ci furono circa 40 morti e 60 feriti. Nella chiesa parrocchiale di Santo Stefano crollò il tetto e nelle navate si aprirono spaccature; il campanile fu gravemente lesionato e si inclinò notevolmente divenendo pericolante, così come la torre dell’orologio pubblico. I magazzini del grano pubblico (dell’Abbondanza) crollarono parzialmente. Il convento dei frati Minori Osservanti, situato poco fuori dal paese, subì gravi danni soprattutto al campanile, al dormitorio, alla chiesa, che divenne pericolante, e al muro di clausura, che crollò in gran parte.. La vicina località di Bagnacavallo subì distruzioni di poco inferiori: crollarono totalmente 40 case e quasi tutte le altre furono danneggiate; inoltre molti edifici dovettero essere puntellati.
Anche Bagnacavallo fu molto danneggiata, con danni alle case e alla chiese. Il terremoto causò crolli anche a Lugo, Russi e Solarolo, località dell’attuale provincia di Ravenna. Per Lugo sono attestati crolli in due chiese e in alcune case, e molti edifici dovettero essere puntellati.
A Cotignola, Bagnacavallo e Lugo si aggiunsero ai gravi danni causati dal terremoto gli effetti di un’esondazione del fiume Senio avvenuta il 27 aprile: dopo giorni di piogge ininterrotte si ruppero in tre punti gli argini del fiume. Le popolazioni che dopo il terremoto si erano rifugiate nelle campagne e vi avevano costruito le baracche dovettero nuovamente fuggire restando prive di un riparo. I raccolti furono distrutti e molti animali morirono. Ci furono nuovi crolli: dopo l’esondazione la zona fu battuta per vari giorni da un fortissimo vento, che fece crollare alcuni edifici già resi pericolanti dal terremoto.
Il terremoto causò inoltre forti danni con qualche crollo sia all’edilizia abitativa sia a quelle ecclesiastica e pubblica in 10 località romagnole, tra cui Forlì e Imola: Brisighella (Ravenna), Calbane (Ravenna), Castagneto (Ravenna), Forlì, Imola (Bologna), Le Osterie (Ravenna), Ponte Lungo (Ravenna), San Giorgio in Ceparano (Ravenna), San Martino Villafranca (Forlì) e Scavignano (Ravenna).
Gli edifici di Forlì furono diffusamente e gravemente danneggiati: si aprirono delle fenditure nelle pareti delle case, crollarono volte e caddero numerosi camini, tegole e grondaie; molti edifici divennero pericolanti.
Nuove forti scosse il 27e 28 aprile 1688 causarono nuovi crolli e danni.
Ci furono danni notevoli sia nel territorio romagnolo di pianura sia in quello appenninico: sono attestati crolli sporadici e danni diffusi a Ravenna, Faenza, Bertinoro, Massa Lombarda e nelle fortezze granducali di Castrocaro Terme e Terra del Sole.
Subirono danni meno gravi la fortezza granducale di Modigliana (Forlì), e le località di Bagnara di Romagna (Ravenna) e Mordano (Bologna).
La scossa più forte fu percepita a nord fino a Padova, a est fino a Rimini, a sud fino a Firenze e a ovest fino a Reggio Emilia.
La ricostruzione coinvolse due diversi centri di potere politico e amministrativo, ciascuno dei quali applicò criteri diversi di intervento.
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Il legato cardinale Acciaioli comunicò al segretario di Stato, cardinale Cybo, i danni subiti in particolare a Bagnacavallo e Cotignola, seguendo una relazione orale fattagli da un perito della Camera Apostolica, e sollecitando provvedimenti urgenti.
provvedimenti L’amministrazione pontificia non fece seguire alla stima dei danni alcun provvedimento in favore delle comunità colpite, che, pertanto, decisero di rivolgersi direttamente al papa, Innocenzo XI, chiedendo la possibilità di reperire fondi attraverso l’imposizione di dazi locali sulla vendita del vino. La pressione da parte delle comunità raggiunse solo parzialmente il suo scopo: il papa dispose uno stanziamento di 8.000 scudi, da destinare a Cotignola e a Bagnacavallo, solo per i più bisognosi. Questa somma, del tutto insufficiente a coprire le spese di riparazione, fu distribuita direttamente dai parroci delle località danneggiate. Alcune comunità organizzarono collette locali per raccogliere fondi per la riparazione degli edifici pubblici, tra i quali le chiese parrocchiali, i cui lavori di riparazione furono per lunghi anni a carico dei parrocchiani stessi. Questi carichi economici furono causa di malcontento che inasprirono i rapporti con l’amministrazione ecclesiastica. -
Il granduca di Toscana, governato da Cosimo III dei Medici, inviò nelle zone colpite un perito, l’ingegnere Antonio Ferri, per valutare i danni esclusivamente alle fortezze. Il perito, tuttavia, per scrupolo personale, annotò anche i danni alle case private che più avevano bisogno di riparazioni. La perizia è arricchita da disegni molto precisi ed eloquenti, quasi in sostituzione di un mezzo che allora ovviamente non c’era, la fotografia:
Provvedimenti: sulla base della perizia di Ferri, il Provveditore generale alle fortezze propose al granduca di finanziare anche la ricostruzione privata, secondo una consuetudine ormai consolidata in area granducale. Questa proposta fu approvata e i prestiti in denaro furono concessi con un tasso di interesse allora considerato favorevole, di circa il 4%. Questo provvedimento motivò la popolazione a ricostruire.
22 marzo 1661, Appennino romagnolo
Due stati confinanti, due diverse strategie di intervento, due diversi esiti
La zona colpita fu un’area dell’Appennino tosco-emiliano di circa 570 kmq, compresa fra le vallate dei fumi Montone, Bidente, Rabbi e, in parte, del Senio. Le località colpite appartenevano in parte al granducato di Toscana, governato da Ferdinando II
(1621-70), in parte allo stato della Chiesa, governato dal papa Alessandro VII (1655-67).
I paesi granducali danneggiati furono: Castrocaro, Galeata, Marradi e Terra del Sole.
I paesi colpiti dello stato pontificio furono: Bertinoro, Civitella di Romagna, Forlì e Predappio Altre scosse si susseguirono per circa 40 giorni; la più forte di queste avvenne il 7 aprile, circa alle 15:10 locali.
Rocca San Casciano subì distruzioni e danni gravissimi; Galeata e Civitella di Romagna subirono danni di poco inferiori. In altre 27 località ci furono danni molto gravi; inoltre una trentina di paesi furono danneggiati in modo meno grave.
Nelle località del granducato di Toscana crollarono complessivamente 84 chiese; molto peggio fu per case: su un patrimonio edilizio totale di 4.560 case, ubicate in 15 comuni e nei loro circondari, ben 1.234 (27%) crollarono. In particolare crollarono 130 case su 140 (92%) a Rocca San Casciano e 108 su 250 (43%) nel suo circondario; 62 case su 92 (67%) a Galeata e 226 su 516 (44%) nel suo circondario.
Le case che non crollarono divennero inagibili e dovettero essere puntellate e anche gli edifici pubblici subirono danni gravissimi. Per Civitella di Romagna, che apparteneva allo stato della Chiesa, non sono disponibili analoghe relazioni sui danni, ma è noto che questa località subì il crollo quasi completo delle case, della rocca e delle chiese. Vi furono complessivamente oltre 330 vittime.
La forte scossa fu sentita a Bologna, Ferrara, Firenze, Ravenna, Cervia e Rimini. Nei territori di Tredozio, Galeata, Pondo e Valdoppio si aprirono profonde spaccature.
Il terremoto ebbe forti effetti negativi sull’economia rurale di questa zona appenninica. Oltre alla morte di contadini e alla distruzione delle loro abitazioni, un grande numero di animali morirono sotto le macerie delle stalle: in particolare nelle località colpite del granducato di Toscana perirono complessivamente 371 capi di bestiame. Anche i traffici commerciali fra i due versanti appenninici subirono un notevole calo, dovuto alle pessime condizioni delle strade, ingombre di macerie e rese impraticabili dal fango causato dalle piogge torrenziali che seguirono al terremoto.
Come si ricostruì?
I due Stati applicarono strategie di ricostruzione diverse. In sintesi, il confronto evidenzia una diversa attenzione al radicamento e al proseguimento delle attività produttive.
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Per i territori della Romagna pontificia, l’iniziativa di assumere informazioni sui danni fu presa autonomamente dal legato di Ravenna, cardinale Bandinelli, la massima autorità pontificia in sede locale. Non furono redatte perizie dettagliate sugli effetti, ma solo stime complessive dei costi dei danni.
I provvedimenti furono limitati all’esenzione da determinate tasse (i ‘pesi camerali’). La città pontificia più danneggiata, Civitella di Romagna, fu esentata dal pagamento dalle tasse per venti anni. Questo tipo di intervento andò a favore dei cittadini abbienti, quelli che già pagavano le tasse, mentre i numerosi piccoli proprietari, che avevano come unico bene la loro casa, non ricevettero alcun aiuto finanziario. Dai centri colpiti emigrarono artigiani e salariati e l’amministrazione pontificia non prese provvedimenti per contrastare questo fenomeno di potenziale impoverimento dei centri abitati.
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Il granduca Ferdinando II ordinò delle visite alle località colpite, ossia delle ricognizioni sul posto da parte di mastri muratori e ingeneri. L’ingegnere Ridolfo Giamberti fu incaricato di eseguire la perizia dei danni alle fortezze di Castrocaro, Terra del Sole e Montepoggiolo. Giamberti concluse il suo lavoro il 22 maggio, appena due mesi dopo il terremoto. La perizia attesta numerosi elementi che oggi rientrerebbero nella definizione di ‘vulnerabilità’ degli edifici prima del terremoto: egli rilevò infatti che gli edifici avevano subito prima del terremoto effetti dovuti all’erosione dei fiumi, allo scolo delle acque piovane libere e ai ghiacci invernali. Giamberti dimostrò una conoscenza assai precisa del degrado degli edifici causato dagli agenti ambientali.
I provvedimenti presi dal Granducato di Toscana furono rapidi. Pochi mesi dopo il terremoto e dopo aver acquisito le stime dei danni, l’erario fornì una somma di 10.000 scudi fiorentini sotto forma di prestito senza interessi per gli abitanti non abbienti e con interessi al 4% per i proprietari (un tasso considerato al tempo molto basso).
Fu inoltre stabilito che la restituzione del capitale, rateizzata in cinque anni, sarebbe cominciata solo due anni dopo la riscossione del prestito. L’amministrazione granducale dimostrò una notevole tolleranza, tanto che ancora nel 1733, a più di settanta anni dal terremoto, si calcolavano i saldi di tali debiti, che nel frattempo erano stati ereditati da altre generazioni.Archivio di Stato di Firenze, Miscellanea Medicea, reg.444, cc.112-115,
Diario di etichetta (1659-1662), Relazione di Giovanni Battista Pieratti al granduca Ferdinando II sulla visita fatta nei paesi della Romagna danneggiati dal terremoto del 22 marzo 1661, Firenze 28 marzo 1661.