La maggior parte di questi eventi non ha causato effetti gravi: dalla percezione del solo scuotimento a lesioni di edifici, caduta di camini, cedimenti di muri interni, alcuni crolli. Tuttavia uno di questi terremoti, quello iniziato nel novembre 1570, ha avuto un peso cruciale nella storia della città: e non solo come evento sociale, culturale e politico, ma anche per le attuali valutazioni di rischio, a cui oggi sono esposti gli abitanti, le case e i monumenti della città e dei paesi del suo territorio.
Fra il novembre 1570 e la fine del 1574 Ferrara si trovò nell’area epicentrale di una lunga e forte sequenza sismica (con oltre duemila scosse, secondo i contemporanei), concentrate soprattutto fra il 17 novembre 1570 e la fine del febbraio 1571.
Circa il 40% delle abitazioni fu danneggiato, oltre a quasi tutti i maggiori edifici pubblici. Anche le chiese rimasero segnate da crolli parziali, lesioni, sconnessioni delle pareti portanti, gravi dissesti. Fu un disastro da cui la città e la dinastia dei suoi sovrani, gli Estensi, non si sarebbero più ripresi. Fu un disastro ingente non solo per i danni subiti (stimati intorno ai 300.000 scudi), ma anche per aver indotto un generale senso di disorientamento e di sfiducia nell’opera umana e nel destino stesso della città. Il terremoto fu infatti interpretato da un lato come segno dello sfavore divino nei confronti di Ferrara e dei suoi sovrani, dall’altro come un evento che metteva in crisi teorie consolidate, sollecitando i “filosofi naturali” (gli scienziati del tempo) a riflettere sulle cause dei terremoti in generale e di quello in particolare. Il terremoto era avvenuto in pianura e sul far dell’inverno, contraddicendo le teorie allora correnti sull’argomento. Che la pianura sia esente da terremoti a dire il vero è un pregiudizio anche oggi diffuso che è rimbalzato anche con il terremoto del 20 maggio 2012. Ma come si vede, purtroppo non è così . Sotto la pianura padana si sviluppa infatti la grande dorsale ferrarese, una sorta di catena sepolta da strati di depositi alluvionali, ma ben attiva.
Nel 1571, dopo il terremoto, la popolazione si vide infatti costretta a cercare rifugio in ricoveri di fortuna, dove persone di ogni grado sociale si trovarono a coabitare fianco a fianco per mesi, in uno stato di promiscuità forzata che coinvolse persino i sovrani. Questa corte trasferita in tende di fortuna, e divenuta all’improvviso “cingana” (come si scrisse nelle corrispondenze diplomatiche), colpì profondamente l’immaginazione dei contemporanei, tant’è che su tali vicende è disponibile una straordinaria quantità di fonti di vario genere: diari e resoconti di testimoni oculari di varie estrazioni sociali, culturali e anche religiose. Dettagliati carteggi diplomatici e relazioni inviate dagli ambasciatori mandati sul posto dalle principali corti italiane, raccoglievano notizie «di Val di Po dov’era Ferrara» (come scrisse l’ambasciatore fiorentino Bernardo Canigiani nei primi giorni del terremoto).
Furono scritti anche diversi trattati volti a indagare le cause dell’evento – dagli uni ritenute naturali, dagli altri prodigiose –, e persino sonetti e poesie ispirate all’«orrore estremo / di triplicate scosse in un sol giorno, / che il mondo in sé fesse ritorno».
Tutto questo avveniva in un momento particolarmente delicato per gli equilibri politici della città: se il duca fosse rimasto senza eredi (e le voci sulla sua sterilità andavano facendosi sempre più insistenti), alla sua morte il ducato di Ferrara sarebbe stato devoluto alla Santa Sede – prospettiva per altro vagheggiata apertamente da una parte consistente della popolazione, esasperata dal peso sempre più intollerabile della fiscalità estense. Tanto più che da anni i papi non trascuravano alcun mezzo per minare il forte consenso di cui tradizionalmente la dinastia godeva in città, agendo sul piano diplomatico e giuridico nel tentativo di delegittimare i duchi e spezzare i rapporti privilegiati che li legavano alla Corona francese. Così l’importante sequenza sismica iniziata nel novembre 1570 divenne, subito dopo le tre forti scosse del 16 e del 17 di quel mese, una sorta di grimaldello della diplomazia di Pio V per incrinare il prestigio estense in città e per mettere in discussione il regime ducale agli occhi dei sudditi e delle altre corti italiane.
Di qui gli sforzi compiuti da Alfonso II d’Este (figlio di un’eretica dichiarata come Renata di Francia) per allontanare da sé qualsiasi ombra di peccato, mostrandosi ottimo cattolico e cercando con ogni mezzo di minimizzare agli occhi del mondo i danni causati dal terremoto. Di qui le frequenti comunioni del duca (già sin dalle prime scosse, come si premurava di scrivere a Venezia il suo segretario). Di qui la sua immancabile, ostentata, partecipazione a ogni processione religiosa da lui stesso organizzata in città, le elemosine ai poveri, la fondazione di nuovi conventi, la decisione di non abbandonare in nessun caso Ferrara, anche a costo di vivere indecorosamente accampato in una fangosa tenda all’addiaccio. Di qui gli affannosi lavori di restauro del castello, per potervi fare ritorno al più presto e ristabilire qualche elemento di normalità. Di qui anche una sorta di appello, benché assai probabilmente non esplicito, all’ambiente scientifico del tempo (medici, fisici, filosofi naturali ed esperti vari), per potere disporre di una spiegazione ‘naturale’ delle cause fisiche del terremoto da opporre alle minacciose insinuazioni del papa sulle “colpe” del duca.
In questo contesto, nel corso del 1571 sul terremoto di Ferrara furono scritti almeno sei trattati, fra cui anche Libro, o Trattato de’ diversi terremoti di Pirro Ligorio, di cui è illustrato nella pagina di apertura del sito il progetto di casa antisismica.
Come potrebbero rispondere oggi le case, i palazzi, le chiese di Ferrara e del suo territorio all’input di un terremoto simile a quello del 1570-1574? Come reagirebbero gli attuali abitanti ai problemi di una sequenza sismica così forte e prolungata? Non esiste ancora un Atlante dei danni sismici di Ferrara, più volte proposto e sollecitato da storici, ingegneri e geologi, che costituirebbe un dossier preziosissimo anche per l’attuale protezione del patrimonio architettonico storico.
Bibliografia
Folin M., Rinascimento Estense. Politica, cultura, istituzioni di un antico stato italiano, Roma-Bari, Laterza, 2001;
Guidoboni E. Riti di calamità: terremoti a Ferrara nel 1570-74, in Calamità Paure Risposte, numero monografico di “Quaderni Storici” a cura di A. Caracciolo e G.Calvi, 1994, n. 55 , pp. 107-135;
Guidoboni E., An early project for an antiseismic house in Italy: Pirro Ligorio’s manuscript treatise of 1570-74, in «European Earthquake Engineering», 1997, n. 4, pp. 1-18;
Guidoboni E., Ferrari G., Mariotti D., Comastri A., Tarabusi G., Valensise G., Catalogue of Strong Earthquakes in Italy from 461 BC. to 1997 and in the Mediterranean area, from 760 BC. to 1500, An Advanced Laboratory of Historical Seismology (2007-), http://storing.ingv.it/cfti4med/;
Pirro Ligorio, Libro di diversi terremoti (1571), Codice 28 Ja II 15 dell’Archivio di Stato di Torino, a cura di E. Guidoboni, Roma, De Luca, 2006 (Edizione Nazionale delle Opere di Pirro Ligorio).
Serenissimo Principe,
i nostri terremoti, che cominciarono in giovedì notte venendo in 4 scosse principali del primo giorno, che l’ultima ad eccessiva fu alle 4 ore di notte: e sino alli 23 venendo li 24 di novembre spesseggiarono, ma non molto forte, più la notte che il giorno, scotendo assai gagliardi e spessi la detta notte che fu l’ottava. Poi sino al primo di dicembre, che fu il terzo venerdì e la quindicesima, si passorono con scosse e tremori manco spaventosi e più radi, e di giorno pochissimi: se non verso il tramontare del sole, una quasi sempre.
Ma quella notte moltiplicorno fino al numero di 60 dal tramontar al levar del sole. E da poi ritornorno in minor numero e qui di manco forza: ma all’intorno furono grandi, maxime verso Belriguardo e verso il Bondeno.
Lunedi’ e Martedi’ notte alli 4 et alli 5 del presente (dicembre). Il quarto giovedì notte, cioè ierisera, fece otto giorni, e ventiduesima dal principio dell’accidente, appresso le 22 ore ne venne uno che scosse il dir d’una avemaria fortissimo, e fu molto grande e spaventoso, se bene rovinò poco di nuovo, e tutta notte fino alle 16 ore se ne sentirono assai, e il resto della settimana, si passò con 4 o 6 per notte piccoli, sino a iersera, che il quinto giovedì e la ventinovesima, che alle 2 ore ne venne uno grandetto, appresso le 6 uno grande, lungo e spaventoso, e sino alle 16 o 17 che noi siamo al presente se ne sono sentiti 4 o 5: ma quello delle sei ore rovinò in casa i Tassoni in su la Ghiara e nella chiesa di Sant’Andrea dell’ordine di Santo Agostino, e in molti altri luoghi”.
(trascrizione dall’originale di Emanuela Guidoboni)