Terremoti in Italia negli ultimi 50 anni
Dal 1861 al 2011 i forti terremoti hanno colpito l’Italia quasi con la regolarità di un metronomo, in media uno ogni quattro – cinque anni. Ci sono stati 34 disastri sismici, con danni gravi o distruzioni a 1.560 località, fra cui 10 città oggi capoluoghi. E poi altri 86 terremoti di energia minore, ma a volte di poco meno distruttivi di quelli che sono considerati “disastri”. In aggiunta, decina di grandi alluvioni e centinaia di frane. E da non dimenticare due guerre mondiali: una storia davvero irta di difficoltà e tragedie, viste nel loro insieme.
Indice
Siamo un popolo di traumatizzati?
Perché tanti danni?
Anche terremoti di magnitudo basse o medie (5.5-6) hanno causato in Italia danni enormi e quindi morti. Perché tanti danni? Bisogna chiederselo per comprendere le cause dei disastri sismici. La qualità del patrimonio edilizio è chiamata in causa. Soprattutto nel centro e nel sud del Paese, e almeno per i primi cento anni della nostra storia nazionale, ha prevalso un’edilizia povera, indebolita da mancati adeguamenti, resa sempre più vulnerabile. Le popolazioni che vi abitavano erano pressate dai bisogni della sopravvivenza, risultato di un’economia agricola spesso arretrata.
Ma i disastri sismici avvengono solo per ragioni che possiamo definire umane in senso lato, o c’è un nesso fra aree sismogenetiche e marginalità geografica delle aree abitate? Perché certe aree del Paese che consideriamo sviluppate e floride sembrano immuni dai disastri sismici o minimamente coinvolte? La domanda suona inquietante, e merita un tentativo di risposta.
Perché nelle aree industrializzate del nord Italia ci sono pochi terremoti?
Perché le città del sud sono cresciute in aree molto sismiche?
I principali terremoti italiani riflettono la dinamica della dorsale appenninica, una catena ancora giovane, per tutta la sua lunghezza, dalla Liguria alla Sicilia; si dispongono quasi esattamente lungo il suo crinale, e colpiscono quindi in netta prevalenza paesi di montagna o di collina. In aggiunta a quest’area sismogenetica principale ci sono poi aree secondarie, ma non per questo meno pericolose, che includono il margine pedealpino del Veneto e del Friuli, la Liguria occidentale, il Gargano e la Capitanata, la Sicilia orientale e parti della Sicilia occidentale. La sismicità di queste regioni “periferiche” ha un denominatore comune nella spinta esercitata dalla placca litosferica africana nel suo lento moto di deriva verso nord-ovest, ovvero verso la placca euroasiatica. Il complesso mosaico di questi spostamenti – e dei terremoti che ne sono l’inevitabile conseguenza nonché la testimonianza più evidente – lascia tranquille solo poche aree del territorio nazionale: l’intera fascia tirrenica da Genova alla Basilicata, con l’eccezione delle aree vulcaniche tosco–laziali e campane, la porzione occidentale della Pianura Padana, la Sardegna, il Salento, che tuttavia risente di terremoti di origine greca.
Per tornare alla domanda che era stata posta, il fatto che il popoloso e attivo triangolo industriale dell’Italia nord-occidentale ricada nel settore meno sismico della penisola è probabilmente poco più di una coincidenza, frutto di dinamiche storiche debolmente legate alle caratteristiche di quel territorio, che peraltro presenta altre criticità ambientali non meno preoccupanti dei terremoti (si pensi alle ricorrenti alluvioni che flagellano Liguria e Piemonte).
Per capire invece come siano andate le cose per alcune grandi città del sud, che sono state distrutte da terremoti e sono risorte diverse volte nella loro storia, si può solo pensare che i “vantaggi ambientali” garantiti da certi siti – si pensi allo Stretto di Messina, uno dei luoghi più sismici di tutto il Mediterraneo, e alla sua formidabile posizione proprio al centro di questo mare – abbiano prevalso sui rischi a cui gli insediamenti sarebbero stati esposti; un meccanismo di “rimozione” del rischio a cui forse non è estraneo il fatto che i più forti terremoti del nostro Meridione, che possono raggiungere magnitudo 7, sono anche rari, e tendono quindi a non sedimentarsi nella memoria collettiva delle popolazioni colpite.
Il ruolo fondamentale della qualità edilizia
I terremoti italiani hanno colpito quasi sempre aree interne o marginali, caratterizzate da una edilizia realizzata con metodi tradizionali, assai raramente con accorgimenti di difesa dai danni sismici. Per la maggior si è trattato di povere case, spesso rese più vulnerabili da mancata manutenzione o malamente “ammodernate” da interventi non adeguati; un fenomeno che purtroppo ha riguardato anche tempi recentissimi.
Le fotografie dei terremoti del passato mostrano in modo impietoso cumuli di macerie di ciottoli sciolti o di cubetti di tufo sparpagliati e case “sbriciolate”; e poi solai sprofondati, poggianti su travi troppo sottili, o già deformate, o scarsamente ammorsate alle pareti, che a loro volta sopportano a mala pena il peso dei tetti. Le immagini mostrano anche lo smarrimento dei sopravvissuti davanti a quei cumuli di case disfatte, a strade e piazze divenute stravolte tracce di una vita sociale smarrita o perduta, a volte cancellata per sempre. Quelle macerie indicano precedenti fatiche azzerate e nuove fatiche da sopportare, nella solitudine di paesi spopolati.
Costruzione e ricostruzione: è questa una storia che sta sotto alla storia ufficiale del Paese, una storia secolare che si è ripetuta così spesso in questi 150 anni da essere vissuta dalle popolazioni colpite, fino a tempi recenti, come una maledizione o una punizione divina, a cui non è possibile sottrarsi se non con l’abbandono e l’emigrazione.
I terremoti sono una memoria condivisa?
C’è stata in Italia una risposta culturale diffusa al rischio sismico?
Perché in Italia, almeno negli ultimi cinquanta anni – un periodo caratterizzato dalla diffusione di cultura e benessere – non c’è stata una risposta ai terremoti diffusa e condivisa al punto da divenire una cultura nazionale inderogabile? Questo è invece avvenuto in altri paesi sviluppati che hanno una elevata sismicità. Non basta invocare la scarsità delle risorse economiche e materiali, che pure ha avuto un peso determinante negli ultimi decenni dell’Ottocento e dopo la crisi del primo dopo guerra (1915 e fino al 1930 circa). Bisogna ipotizzare che siano entrati in gioco anche altri fattori, a cui possiamo qui solo accennare, come tracce di una storia da sviluppare.
Se si analizzano i dati storici relativi agli ultimi 50 anni – con una recente controtendenza in alcune aree – colpisce la perseverante miopia nella programmazione del territorio, che richiederebbe decenni di stabile progettualità per poter fronteggiare i rischi ambientali (come mostrano anche le ripetute alluvioni, che drammaticamente danneggiano sempre le stesse limitate aree dal nord al sud del Paese).
Colpisce anche una reiterata debolezza istituzionale per l’applicazione di norme di tutela del patrimonio edilizio, sia abitativo sia monumentale. Norme, decreti e leggi sono stati prodotti in grande quantità dal legislatore italiano nel tempo, eppure il problema è sempre stato quello di farli osservare. Questa debolezza si è manifestata nella mancanza di controlli sulla qualità del costruito, poi messa tragicamente in luce da terremoti anche non forti, ma i cui effetti sono risultati comunque distruttivi. La storia dei disastri sismici di questo ultimo secolo e mezzo mostra, salvo eccezioni, che i vari livelli territoriali delle decisioni e dei controlli amministrativi locali si siano mostrati non di rado vincolati a equilibri e compromessi del tutto estranei al bene pubblico.
Gli ultimi tre decenni (1981-2011)
La distribuzione dei terremoti nel tempo mostra che gli ultimi trenta anni sono stati di relativa calma; una calma che dura dal 1981, anno successivo a quello del terremoto dell’Irpinia. In ciascuno di questi tre decenni il numero di terremoti che hanno causato danni gravi è stato nettamente inferiore rispetto a quello, ad esempio, dei decenni 1870-1880, 1910-1920, 1970-1980 .
I terremoti ricorrono nelle stesse aree; in altre parole, le aree colpite dai disastri sismici sono quasi sempre le stesse. Questa circostanza può essere vista come una “condanna” per i residenti di quelle zone, ma anche come una opportunità in più da parte delle istituzioni e dei cittadini per attuare efficaci azioni di prevenzione.
Cosa succederà in futuro?
I terremoti sono una manifestazione inevitabile della vita Terra: ci sono stati e ci saranno sempre. Quanto è già successo negli ultimi 150 anni sarà molto simile ai prossimi 150 anni e come già avvenuto nei secoli precedenti. E’ una prospettiva forse allarmante, ma che ignorare sarebbe inutile, oltre che irrazionale. L’unico strumento di cui disponiamo perché i prossimi terremoti, che comunque dovranno accadere, non diventino nuovi disastri è la prevenzione, e questa può svilupparsi solo su una base di conoscenza e di responsabilità sia individuali sia istituzionali. Su questa via il nostro Paese è già avviato da alcuni decenni: è un lavoro impegnativo e continuo, ma realizzato con scarse risorse e per lo più ignorato e sottovalutato dall’opinione pubblica. Eppure è di basilare e irrinunciabile importanza per il futuro. Esso richiederebbe l’apporto consapevole e responsabile della popolazione coinvolta e potrebbe divenire un volano importante dell’economia di base.