Perché conoscere la sismicità del Sannio-Matese
Nel dicembre 1456 un terremoto colpì una vasta area del Regno di Napoli; 5 giugno 1688 violentissima scossa nell’area del Sannio, 29 novembre 1732 scossa in Irpinia. Quattro terremoti importanti per conoscere la storia sismica del Sannio Matese, una delle aree sismiche più pericolose d’Italia, origine di terremoti distruttivi.
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Terremoto del 5 dicembre 1456 Io XI MCS Mw 7,2
Il terremoto del dicembre 1456 colpì una vasta area del Regno di Napoli, governata dagli Aragonesi, comprendente le attuali regioni Campania, in particolare l’area del Sannio e del Matese, l’Abruzzo meridionale, il Molise e parte della Basilicata. Questo è uno dei terremoti più devastanti della storia sismica italiana.
I centri colpiti furono numerosi: da grandi città come Napoli, Benevento e L’Aquila, alle piccole città e ai popolosi paesi della pianura campana, nei dintorni di Benevento e Avellino, e fino ai castelli del Sannio e dell’Abruzzo.
MORTI Il numero dei morti causato da questo grande evento non è ricavabile con precisione dalle fonti coeve, ma probabilmente non fu inferiore a 60.000.
Particolarmente colpite, con più del 50% di vittime rispetto alla popolazione residente furono Apice, Ariano Irpino, Bojano, Campochiaro, Isernia, Paduli, Tocco da Casauria.La rete insediativa del Regno di Napoli colpita da questo disastro sismico era molto diversificata. I centri di pianura si basavano prevalentemente sulle attività agricole; quelli appenninici, a parte i castelli fortificati con funzioni militari, erano basati su una economia agro-pastorale, che sfruttava la transumanza verso i pascoli pugliesi.
I numerosi paesi e villaggi avevano una scala demografica per il tempo non piccolissima, che era valutata sul numero di fuochi (un’unità fiscale corrispondente alle famiglie residenti che erano iscritte nei ruoli delle tasse). Dai ruoli fiscali del XV secolo si rileva che circa l’80% della popolazione risiedeva in paesi inferiori ai 200 fuochi (circa mille abitanti), anche se il numero può essere considerato in difetto.Gli effetti
Il terremoto colpì con effetti distruttivi (intensità maggiore o uguale al IX grado MCS) oltre 90 località su un’area vastissima dell’Italia centro-meridionale.
Rilevando la vastità dell’area interessata dal terremoto, del tutto eccezionale se paragonata con quella di altri eventi noti dell’Appennino centro-meridionale, Magri e Molin (1985) per primi proposero di considerare il quadro macrosismico del terremoto come la sovrapposizione di più scosse. Nella stessa ottica Meletti et al. (1988), ipotizzando l’attivazione più o meno contemporanea di diversi segmenti di faglia, hanno messo a confronto il campo macrosismico di tutti i terremoti disastrosi dell’Appennino centro-meridionale, sufficientemente documentati, con quello del terremoto del 1456, nel tentativo di individuare significative zone di corrispondenza.Le fonti ricordano, in effetti, che dopo la prima scossa, avvenuta nella notte del 5 dicembre 1456, circa alle ore 4 locali, repliche molto numerose si protrassero fino ai primi mesi del 1457. Tuttavia, soltanto la scossa del 30 dicembre 1456 delle ore 9:20 locali circa, è descritta di violenza confrontabile con quella del 5 dicembre, e tale da avere causato ulteriori danni gravi.
E’ anche possibile che l’evento del 5 dicembre sia derivato dall’attivazione quasi simultanea di più sorgenti sismiche, come proverebbe la inusuale durata della scossa, percepita di circa 2 minuti, segnalata da vari testimoni diretti e indipendenti. La vastissima area di danneggiamento potrebbe quindi derivare dalla sovrapposizione degli effetti di più terremoti.All’interno dell’area complessiva degli effetti sono infatti distinguibili almeno tre zone, che potrebbero rappresentare altrettante aree epicentrali: la prima al confine tra il Sannio e l’Irpinia, nella zona di Paduli, Apice, Ariano Irpino; la seconda nel Sannio, a nord dei monti del Matese, nella zona di Bojano e Isernia; la terza nell’alta Valle del fiume Pescara, nella zona di Torre dei Passeri, Popoli, Tocco da Casauria. I bordi di tali zone si confondono e non sono facilmente distinguibili. Anche per questa difficoltà il Catalogo Parametrico dei Terremoti Italiani (CPTI 2011-http://emidius.mi.ingv.it/CPTI/) ha optato per un unico quadro degli effetti, interpretandolo come effetti cumulativi, sulla base dello studio di Meletti et al 1988.
Tuttavia un nuovo approfondimento storico di questo evento fornì successivamente altre informazioni: infatti, sovrapponendo la mappa dei paesi danneggiati (i cui danni sono attesati da una ricca e precisa documentazione) a quella dei paesi esistenti al tempo del terremoto (basata su un censimento e su documentazione ecclesiastica del tempo) Guidoboni e Comastri (2005, Catalogue of Earthquakes and Tsunamis in the Mediterranean area from the 11th to the 15th century) hanno evidenziato che i paesi danneggiati appaiono quasi “circondati” da paesi non danneggiati. L’ipotesi di più terremoti quasi concomitanti nel tempo è così divenuta più forte. La mappa in fig. 2 rappresenta questo ultimo step di ricerca.
Nonostante il devastante impatto, il terremoto non interruppe il trend demografico in ascesa attraversato dal Regno di Napoli in quel periodo. La recente analisi storiografica tende a ridimensionare gli effetti del terremoto sull’assetto demografico e territoriale delle aree colpite, in particolare in Abruzzo, dove la storiografia locale aveva segnalato un processo di decastellamento, con l’abbandono dei siti fortificati in altura e la concentrazione della popolazione nei centri maggiori della pianura. Anche se è indubbio che alcuni villaggi di fondovalle aumentarono in modo consistente il numero degli abitanti fra la metà del Quattrocento e i primi anni del secolo successivo, non sempre è provato il collegamento fra il terremoto e tale processo di crescita.
Il terremoto del 1456, come tutti i forti eventi sismici, fu anche causa di abbandoni di piccoli paesi, come mostra questo particolare di una mappa aragonese del Regno di Napoli, egregiamente studiata da Vincenzo Aversano e Silvia Siniscalchi, due cartografi storici dell’Università di Salerno.
La mappa mostra un paese abbandonato perché distrutto dal terremoto.La risposta del governo
Dopo il terremoto il re Alfonso il Magnanimo non prese alcun provvedimento straordinario, anzi, ricevuta la notizia mentre si trovava in Puglia, non ritenne neppure necessario tornare a Napoli e rimase in Puglia fino ai primi di febbraio 1457.
Successivamente il re non accolse neppure le richieste di esenzione dalle tasse avanzate dalle comunità più colpite, obiettando che i superstiti erano in grado di pagarle poiché avevano ereditato i beni dei defunti.Anche gli interventi papali furono molti limitati, indirizzati soprattutto a incoraggiare l’opera di ricostruzione di edifici ecclesiastici con la cessione di indulgenze, come per la ricostruzione della chiesa di Calvi, presso Capua e di San Bartolomeo a Benevento. Altri provvedimenti isolati si rilevano dalla lettera per indulgenze concessa a due laici di Melfi che avevano restaurato un ponte e una bolla di Pio II per la ricostruzione delle mura di Benevento.
Complessivamente il terremoto emerge come una disgrazia occasionale, che nella cultura governativa del tempo non richiedeva, pur nella sua tragicità, interventi specifici se non il ripristino di opere pubbliche, come fortezze, strade e ponti, che potevano compromettere le opere di difesa militare.
Il peso di questa ricostruzione fu quindi tutto sulla popolazione residente, di cui per altro le fonti del tempo accennano in modo sporadico e laconico.Le previsioni degli astrologi e il primo catalogo di epoca moderna
In alcune fonti coeve si ricorda l’influenza sulla popolazione di Napoli degli astrologi, che vaticinavano altre immediate scosse dopo quella violentissima del 5 dicembre 1456, spingendo la popolazione a restare fuori dalle case. Sempre di derivazione astrologica erano alcune profezie che presagivano terremoti in altre parti d’Italia, come a Firenze e a Ferrara, che non accaddero. Gli ambasciatori presenti a Napoli presero molto seriamente questi presagi e ne chiesero conferma nelle loro missive.Il terremoto fu un argomento di grande riflessione da parte dei filosofi naturali. L’opera più importante prodotta nell’ambito di questo disastro sismico è il famoso trattato De Terraemotu Libri tres, di Giannozzo Manetti, illustre umanista fiorentino, che si trovava alla corte di Napoli. Il trattato si compone di tre libri: il primo è un compendio delle teorie interpretative del terremoto e una sorta di nuova lettura della teoria aristotelica, aperta alla riflessione filosofica da un lato e a quella religiosa dall’altro, quasi delineando due verità, che potevano convivere in modo indipendente (un’interpretazione assai poco gradita alla Chiesa di allora). Il secondo libro contiene il primo catalogo europeo d’epoca moderna sui terremoti del passato: è un compendiato costruito sulla base degli autori classici greci e latini, riscoperti durante il Rinascimento e divenuti la base di una cultura prestigiosa e preziosa, perché attraverso la memoria storica di eventi già accaduti delineava una sorta di geografia sismica, che poteva mostrare la naturalità dell’evento terremoto. Il terzo libro contiene la descrizione paese per paese degli effetti del terremoto del 1456, probabilmente basata sulle relazioni dei governatori che erano giunte alla corte di Napoli.
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Terremoto del 5 giugno 1688 Sannio Io XI MCS – Mw 7
Nei giorni precedenti il 5 giugno 1688 vi erano state leggere scosse. Il giorno 5, circa alle ore 16 locali, fu sentita una scossa più forte che non causò danni e mise in allarme la popolazione. Dopo circa trenta minuti, alle ore 16,30 locali, ci fu una violentissima scossa, che colpì l’area del Sannio, regione storica tra il Beneventano e l’Irpinia, nell’attuale regione Campania. L’area complessiva dei danni fu di circa 58.000 kmq. Le distruzioni furono gravissime ed estese.
MORTI Le vittime furono circa 10.000, prevalentemente donne e bambini; moltissimi uomini si salvarono perché erano nei campi per i lavori agricoli. Nella sola città di Benevento , che aveva allora 7.500 abitanti, ci furono 1.367 morti.
La scossa più forte a Benevento fu percepita in due riprese della durata complessiva di circa 13 secondi. A Napoli, che si trova a circa 50 km a sud–ovest dell’area dei massimi danni, fu percepita una scossa della durata di circa 20 secondi. Durante i giorni successivi e fino alla fine di giugno furono sentite numerose scosse, che in qualche caso aggravarono i danni in edifici già fortemente lesionati; la sequenza sismica si protrasse fino al mese di dicembre del 1688.
Il territorio colpito faceva all’epoca parte del regno di Napoli, governato dalla Spagna, con l’eccezione di Benevento e del suo territorio, che invece appartenevano allo stato della Chiesa.Gli effetti
I massimi effetti sono localizzati in un’area pedemontana di circa 30 km di raggio a sud–est dei monti del Matese, tra le valli dei fiumi Calore e Tammaro, in gran parte compresa nell’attuale provincia di Benevento. Complessivamente 117 paesi, su un’area di 50.000 kmq, subirono estese e gravissime distruzioni; altre 50 località ebbero danni più o meno gravi, con rari colli totali.
Cerreto Sannita e due località del suo circondario, Civitella Licinio e Guardia Sanframondi, a circa 25 km a nord–ovest di Benevento, furono distrutte pressoché completamente.
A Cerreto Sannita crollarono completamente tutti gli edifici con l’eccezione di tre piccole case, che subirono comunque danni gravissimi. Morirono 2.000–3.000 dei circa 4.000 abitanti del paese (50%–75%); nelle frazioni del territorio furono circa 4.000 i morti, degli 8.000 abitanti dell’intero circondario (50%).
Le fonti ricordano inoltre i crolli del monastero delle Francescane, in cui morirono 59 delle 80 monache, del monastero dei frati Francescani, ex residenza angioina, con la morte di 10 dei 12 frati che vi risiedevano, e del convento dei frati Cappuccini, di cui rimanevano solo le officine e qualche muro della chiesa.
Il vicino paese di Civitella Licinio fu distrutto completamente; dei suoi abitanti si salvarono solo coloro che al momento della scossa si trovavano al lavoro nei campi.
A Guardia Sanframondi gli edifici crollarono pressoché totalmente; le rovine furono così estese che, secondo i testimoni dell’epoca, i resti della chiesa e del monastero di San Filippo Neri, i cui frati erano morti tutti tranne uno, erano a stento riconoscibili. Secondo una relazione ufficiale, conservata all’Archivo General di Simancas (Spagna) si riscontrò la morte di 1.100 abitanti, in gran parte donne e bambini.
A Benevento i danni furono gravissimi. Qui vi erano fra l’altro le seterie che garantivano molte entrate fiscali alla Camera pontificia e qui si concentrò poi l’attenzione del papa per la ricostruzione della città. Secondo i periti pontifici l’enormità dei danni (IX grado MCS) fu dovuta alla pessima qualità dell’edilizia urbana. La maggior parte delle case erano costruite con ciottoli di fiume e malte sabbiose. Fu osservato che gli edifici costruiti in mattone, benché colpiti, resistettero molto meglio, per cui per la ricostruzione dei nuovi edifici fu consigliato di utilizzare mattoni o pietre squadrate di tufo e di utilizzare i ciottoli delle macerie solo per ricavare la calce.In altre 14 località del territorio posto alle pendici dei monti del Matese, crollarono pressoché tutte le case, con un elevato numero di morti. Sia l’edilizia pubblica sia quella ecclesiastica, in genere meglio costruita rispetto alle case, subirono estesi crolli totali e danni gravissimi. Le località colpite sono Alife (nell’attuale provincia di Caserta), Apice, Casalbore (nell’attuale provincia di Avellino), Casalduni, Fragneto Monforte, Fragneto l’Abate, Massa, Mirabella Eclano (nell’attuale provincia di Avellino), Pietraroja, Pontelandolfo, San Giuliano del Sannio (nell’attuale provincia di Avellino), San Lorenzello, San Lorenzo Maggiore e San Lupo.
Il terremoto causò estesi danni all’edilizia abitativa, con vari crolli a quella pubblica ed ecclesiastica in altre 32 altre località e precisamente: Ailano, Alvignano, Ariano Irpino, Benevento, Bonito, Calvi, Campolattaro, Castelpagano, Ceppaloni, Ciorlano, Circello, Colle Sannita, Foglianise, Fontegreca, Guardiaregia, Morcone, Moschiano, Pago Veiano, Pescolamazza, Piedimonte, Pietrelcina, San Gregorio Matese, San Marco dei Cavoti, San Nazzaro, San Potito Sannitico, Santa Croce del Sannio, Sant’Agnese, Sant’Angelo a Cancelli, Sant’Angelo a Cupolo, Sassinoro, Telese e Vitulano.Questi dati sono selezionati e sintetizzati dal Catalogo dei Forti Terremoti in Italia, studio del 1995, ora in Guidoboni et al. 2007 http://storing.ingv.it/cfti4med/ , ripreso da CPTI2011 – INGV http://emidius.mi.ingv.it/CPTI11
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Terremoto del 29 novembre 1732: Irpinia Io X MCS Mw 6,6
La scossa più forte accadde il 29 novembre intorno alle ore 8:40 locali e colpì principalmente l’Irpinia, causando danni in un’area molto ampia, estesa dalle località del versante tirrenico al Foggiano e dal Beneventano fino ad alcuni centri della Basilicata settentrionale.
L’area disastrata corrisponde a quasi l’intera provincia di Avellino e a parte di quella di Benevento, più alcuni centri del casertano e del salernitano. Notevoli danni soprattutto agli edifici religiosi sono attestati anche a Napoli, a Benevento e a Melfi.
MORTI Il numero dei morti non è facilmente desumibile dalle fonti, che forniscono dati parziali e talvolta discordanti. Una stima di quasi 1.950 morti è abbastanza realistica, ma potrebbe non essere completa. Fu osservato che il maggior numero di vittime furono donne e bambini, poiché gli uomini, al momento della scossa, erano già a lavorare nei campi. Quest’ultimo elemento fu valutato anche come una causa della mortalità relativamente bassa in rapporto all’entità delle distruzioni e dei crolli avvenuti nei centri più colpiti.L’area dei maggiori effetti fu nell’Irpinia settentrionale: dalla valle del fiume Ufita, probabile zona epicentrale, si estende in direzione ovest e sud-ovest fino a comprendere Avellino e i centri a sud di Benevento; verso sud e sud-est si estende alle valli del Calore e dell’Ofanto e lungo la dorsale appenninica, fino verso il confine con la Basilicata. In direzione nord comprende Ariano Irpino e Zungoli.
La scossa fu devastante a Carife e a Mirabella Eclano, che furono completamente rasi al suolo, con effetti che sfiorarono il grado XI MCS. A Mirabella la devastazione fu tale che il paese in seguito fu ricostruito in un sito diverso da quello originario.
Ariano Irpino era uno dei più importanti centri dell’area: la scossa causò il crollo quasi completo delle abitazioni, delle chiese e degli edifici pubblici, tra i quali il convento delle monache di San Salvatore, la Cattedrale, le chiese di Sant’Angelo, di San Pietro Apostolo, di Santo Stefano, di San Nicola, di San Marco dei Cavoti, la chiesa e convento dei Domenicani, il seminario e il palazzo vescovile. Gli edifici rimasti in piedi erano talmente malridotti da risultare inagibili. Le circa 48 chiese di Ariano erano tutte crollate o impraticabili. Si dovettero abbattere le mura cittadine che erano divenute pericolanti e minacciavano di crollare.
Nell’avellinese il terremoto distrusse la maggior parte dei seguenti paesi: Bonito, Flumeri, Grottaminarda, Guardia Lombardi, Lioni, Pietradefusi, San Mango sul Calore e Teora.
In territorio beneventano i paesi più colpiti furono Apice, Montorsi (oggi frazione dell’attuale comune di Sant’Angelo a Cupolo) e San Nicola Manfredi, quasi completamente abbattuti dal terremoto.
Ad Avellino il terremoto causò il crollo di più della metà delle abitazioni e gravi danni alle rimanenti. In particolare i più distrutti furono i quartieri Terra Murata, Fontana, Borgo di Sant’Antonio e Carmine; crollarono la Cattedrale e il palazzo vescovile; un’epigrafe fu posta nella Cattedrale a memoria dell’evento e della successiva ricostruzione. La residenza del percettore di Avellino divenne inagibile.
L’abitato di Caposele fu totalmente rovinato; crollarono la chiesa Madre e il monastero dei Minori Conventuali con la sua chiesa. L’abitato di Castel Baronia fu invece distrutto per oltre il 50%; crollarono il palazzo vescovile, il monastero di Monte Vergine e la chiesa di Aquaria, situata poco fuori del paese; inoltre, cadde parzialmente la chiesa di Santa Maria della Fratta.
Il terremoto rese inabitabile anche Sant’Angelo dei Lombardi, costringendo la popolazione ad abbandonarlo e a trasferirsi a vivere in campagna.In 115 località, fra cui Benevento e alcuni centri delle attuali province di Foggia, Napoli, Salerno e di Caserta, le fonti attestano danni gravi, con pochi crolli totali, ma numerosi crolli parziali, lesioni e dissesti estesi a gran parte del patrimonio edilizio (VIII MCS); danni gravi interessarono anche Napoli, l’isola di Ischia, Salerno, alcuni centri del casertano, e Melfi e Barile in Basilicata.
A Benevento crollarono alcune case e furono riscontrati gravi danni all’edilizia in generale; rimasero danneggiati il Palazzo Apostolico e il palazzo Magistrale..
A Napoli moltissimi edifici pubblici, civili ed ecclesiastici, riportarono danni più o meno gravi: rimasero lesionati il Palazzo Reale, il palazzo della Vicaria (Castel Capuano) e i castelli a difesa della città. Pressoché tutte le chiese e i monasteri furono danneggiati. Tra gli edifici più colpiti furono la Cattedrale e le chiese di Santa Maria della Pace, di San Giorgio dei Pii Operarii, di Santa Maria Maggiore e del convento di Donna Regina, che rimasero tutte profondamente lesionate e furono dichiarate inagibili.Alla scossa principale seguirono numerose repliche, che continuarono per diversi mesi; alcune scosse furono particolarmente forti e aggravarono i danni del 29 novembre: ad Ariano Irpino sono ricordati ulteriori crolli.
Una forte scossa accadde il 13 dicembre 1732 e causò nuovi danni ad Avellino, Altavilla Irpina e Ospedaletto d’Alpinolo. Molto violenta fu anche la scossa del 16 luglio 1733, che fu sentita fino a Napoli e a Benevento, causando qualche ulteriore crollo. Complessivamente la sequenza durò quasi un anno.Com’era l’edilizia locale?
Dal punto di vista dell’edilizia abitativa questa area presentava due zone caratteristiche, separate dalla valle del fiume Calore. La zona occidentale era caratterizzata da una maggiore presenza di piccoli centri e di insediamenti sparsi, mentre la zona orientale presentava un accentramento demografico in grossi paesi, posti per lo più su poggi, e costoni. Nell’Irpinia occidentale le abitazioni rurali dei proprietari terrieri avevano un piano sopraelevato, elemento invece mancante nelle abitazioni dei semplici contadini. Le aree collinari costituivano la zona degli edifici prevalentemente di pietra calcarea o di tufo e i solai erano in legno. Nell’area montana il materiale da costruzione più diffuso era il pietrame calcareo grezzo o appena squadrato, unito con malte terrose. Nell’Irpinia orientale, le abitazioni dei paesi posti su alture erano costruite per lo più in pietrame calcareo squadrato.Ricostruzione – uno scorcio sui tempi di restauro delle chiese
L’opera di ricostruzione fu rallentata dalla difficoltà di reperire fondi e fu spesso complicata da contrasti sorti tra istituzioni e parti sociali coinvolte nell’impresa. I paesi colpiti da questo disastro sismico erano già stati gravemente segnati dai terremoti del 1688, 1694 e 1702, che avevano richiesto continui interventi economici. La precedenza era data in genere alle chiese e ai palazzi vescovili.Nel 1734 un’epigrafe fu collocata nel palazzo vescovile di Ariano Irpino per ricordarne il restauro. Nel 1736 fu posta una lapide nella cattedrale per celebrare la definitiva ricostruzione della chiesa in quell’anno: l’edificio fu abbassato, secondo alcuni alterandone in modo irreparabile le proporzioni. La chiesa di San Michele Arcangelo fu ridotta a una sola navata, dalle tre che aveva prima del terremoto; la chiesa di San Giovanni della Valle fu completamente rimodernata e l’entrata principale fu spostata dal lato di ponente a quello meridionale, sulla strada Reale; la chiesa e il convento dei Domenicani furono pressoché ricostruiti dalle fondamenta.
Ad Avellino, la cattedrale era stata restaurata prima del terremoto e riaperta al culto nel 1728: ma il terremoto del 29 novembre 1732 causò gravi danni, che furono riparati grazie a un nuovo intervento del vescovo e a un lascito del cardinale Fini, un tempo vescovo di Avellino. Nel 1736 la cattedrale fu infine inaugurata solennemente. Ma solo nel 1783 furono eseguiti lavori sulla torre dell’orologio lesionata dal terremoto del 1732.
A Napoli nel 1743 fu ricostruita la chiesa di Santa Maria Egiziaca Maggiore; la tribuna dell’altare maggiore della cattedrale, crollata in seguito al terremoto, fu completata nel 1744 per intervento dell’arcivescovo Spinelli.
A Benevento, che apparteneva allo stato della Chiesa, i lavori di restauro del Palazzo Apostolico furono dati in appalto e documenti del 1733-1734 attestano che la qualità dei lavori eseguiti e la spesa della loro esecuzione spinsero le istituzioni pontificie ad avviare un procedimento ufficiale per accertare la qualità dell’opera ed eventuali irregolarità.
Nell’agosto del 1735 una lettera del governatore di Benevento, G.M. Centini, alla “Sacra Congregazione del Buon Governo” (l’ufficio che autorizzava e regolava le attività economico-finanziarie delle comunità dello Stato Pontificio) testimonia che il Palazzo Magistrale non era ancora stato riparato dopo il terremoto del 1732 e si chiedeva l’autorizzazione a una spesa di 417,80 ducati per ripararlo. Dalla stessa lettera si apprende anche che nel Palazzo Apostolico, dopo essere stato restaurato, era crollata una volta del salone a causa di un forte vento.Questi dati sono sintetizzati dal Catalogo dei Forti Terremoti in Italia, studio del 1995, ora in CFTI 4Med, Guidoboni et al. 2007 http://storing.ingv.it/cfti4med/ , ripreso da CPTI2011 – INGV.
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Terremoto del 26 luglio 1805 Io X MCS Mw 6.6 Sannio – Matese
Questo terremoto colpì una vasta area dell’Italia centro-meridionale ed ebbe effetti distruttivi nel Sannio, soprattutto lungo la fascia pedemontana orientale del Matese.
Facendo riferimento all’attuale suddivisione amministrativa del territorio, le località che furono maggiormente colpite oggi si trovano nelle attuali province di Isernia e di Campobasso; in misura minore, in quelle di Benevento e di Avellino. Effetti meno distruttivi, ma comunque gravi, interessarono anche centri delle attuali province di Caserta, Napoli, Foggia, Salerno e L’Aquila.
Il terremoto era stato preceduto il giorno e la notte del 25 luglio da alcune scosse percepite di bassa intensità avvertite in varie località, colpite poi dalla scossa principale, che accadde lo stesso giorno, alle ore 22.00 locali. Questa scossa più violenta fu percepita della durata di circa 45 secondi e fu disastrosa per una quarantina di paesi e villaggi del vallo di Bojano e dell’area montuosa che si estende da Isernia a Campobasso.MORTI: Le vittime, secondo le fonti ufficiali governative, furono complessivamente 5.573 e i feriti 1.583, in un’area che contava circa 205.000 abitanti.
Nei giorni successivi la scossa più forte, le repliche furono frequenti e sentite giornalmente fino al mese di dicembre 1805. Le più forti furono sentite il 29 luglio, il 4, 6, 9, 15, 20, 23, 24, 25 e 29 agosto, il 2 e il 12 settembre, l’8 dicembre 1805; inoltre il 30 maggio e il 2 giugno del 1806. La sequenza è attesta per un anno.
L’economia agricola dell’area colpita era estremamente arretrata e povera. La scossa avvenne nel periodo del raccolto e ciò peggiorò notevolmente i danni economici.
Quasi tutti i paesi colpiti subirono anche rapine e furti da parte di bande di saccheggiatori, che approfittavano dello stato di abbandono e di distruzione delle abitazioni. Per settimane la popolazione rimase accampata nelle campagne in rifugi di fortuna.Gli effetti più gravi
I paesi più colpiti furono quelli dell’area del Matese e del Sannio, nella parte centro-meridionale dell’attuale provincia di Campobasso. Danni un po’ meno gravi colpirono i paesi della valle del Trigno e del medio tratto della valle del Biferno, nella fascia pede-appenninica del versante adriatico molisano.Otto paesi risultarono totalmente distrutti, con effetti che raggiunsero il grado X MCS. In provincia di Campobasso furono descritti come del tutto atterrati Baranello, con 296 vittime e 204 feriti; Guardiaregia, con 202 vittime e una quarantina di feriti; San Massimo, dove fu distrutta la parte bassa dell’abitato; San Polomatese, dove tutte le poche case rimaste in piedi furono dichiarate inabitabili (128 morti e circa 20 i feriti).
In provincia di Isernia furono distrutti Cantalupo del Sannio, con circa 220 vittime e 42 feriti; Carpinone, con una cinquantina di vittime e 49 feriti; Frosolone, dove si contarono un migliaio di morti e 46 feriti su una popolazione di circa 3.800 abitanti. Il terremoto colpì con effetti devastanti anche Castelpagano, nell’attuale provincia di Benevento, dove solo tre case rimasero in piedi e si contarono 159 vittime e 18 feriti.
In una trentina di altre località, fra cui Isernia e Campobasso, ci furono estese distruzioni e danni gravissimi, con molti crolli, totali e parziali, di edifici (effetti compresi fra i gradi VIII e IX-X MCS). In molti di questi paesi, sviluppati su con forti differenze altimetriche, solo una parte dell’abitato crollò o riportò comunque gravissime distruzioni, mentre la restante parte (in alcuni quella posta più in alto, in altri quella pianeggiante) fu meno colpita.A Bojano, ai piedi del massiccio del Matese, la parte bassa del paese crollò in gran parte, mentre fu relativamente meno danneggiata la parte alta, dove comunque le case divennero quasi tutte inabitabili. Il terremoto danneggiò gravemente il palazzo vescovile, il seminario, il monastero, la Cattedrale e tutte le dodici chiese del paese- Nel cimitero le croci piantate nel terreno furono ritrovate in una diversa posizione rispetto a quella originaria. I morti furono 124.
A Campobasso crollò circa un terzo degli edifici e la maggior parte dei rimanenti furono inabitabili. Gravemente colpito fu il patrimonio storico architettonico: la chiesa arcipretale di Santa Maria Maggiore fu lesionata, gravemente danneggiati la chiesa e il convento di Santa Maria delle Grazie e quello di Santa Maria della Libera.
A Isernia solo 1/10 delle costruzioni non crollò, ma minacciava comunque di cadere. Emerge un’anomala distribuzione degli effetti, concentrati nella parte più elevata dell’abitato, mentre nella parte sud dell’abitato furono danneggiate prevalentemente le chiese, i monasteri e gli edifici di maggiori dimensioni, più dell’edilizia civile minore. Su una popolazione di circa 5000 residenti, ci fu un migliaio di morti.
A Sassinoro, nella valle del Tammaro, alle falde del Matese, le poche case rimaste in piedi divennero tutte inabitabili, e così anche a Fragneto Monforte, a Reino a Colle Sannita.A Napoli, che all’epoca aveva circa 500.000 di abitanti, si aprirono lesioni nei muri e ci furono danni diffusi a molti edifici e chiese. Alcune case crollarono, altre divennero inabitabili e solo poche rimasero illese. Gran parte delle abitazioni dovettero essere puntellate, altre demolite.
A Caserta fu danneggiata la Reggia.La violentissima scossa del 25 luglio causò molti effetti, descritti in dettaglio dai contemporanei. Lunghe spaccature, sprofondamenti ed avvallamenti nel terreno e cadute di massi interessarono un’ampia regione, anche al di fuori dell’area dei massimi effetti. Molti alberi furono sradicati o spaccati dalla violenza delle scosse. Sui monti del Matese si aprirono numerose spaccature, da alcune delle quali fu osservato fuoriuscire del fumo nero maleodorante. Fiamme o materiale fiammeggiante fu visibile sulla sommità del monte Frosolone.
Notevoli anche gli effetti sul regime acquifero, sia prima sia dopo il terremoto: molte acque sorgive aumentarono di temperatura, mentre altre si essiccarono; le acque di molti corsi d’acqua apparvero intorbidate e aumentate di volume.Altre fratture si aprirono nella zona alle falde del Matese: a Guardiaregia (Campobasso) se ne formò una particolarmente lunga che solcava tutta la roccia su cui sorge il paese.
A Bojano, nella pianura sottostante, il giorno precedente il terremoto furono osservati un aumento di temperatura delle acque sorgive e l’intorbidamento delle acque della sorgente del fiume Biferno, che attraversa la cittadina; dopo la scossa comparve una nuova sorgente e nelle campagne circostanti si formarono tre nuovi torrenti, che inondarono i terreni.
Nella zona di Calitri (Avellino), nel cuore dell’Irpinia, ad oltre 100 km dall’area dei massimi effetti, ci furono sollevamenti e sprofondamenti del terreno, tanto che gli alberi furono sradicati e parzialmente sommersi dalla terra: probabilmente si trattò di un movimento franoso innescato dal terremoto. Lo stesso avvenne poco lontano, in località Vallone dei
Monaci, dove si aprì anche una fessurazione lunga oltre un miglio, da cui uscirono delle esalazioni gassose.
Circa 17 giorni dopo la scossa più forte del 25 luglio il Vesuvio eruttò lava che, seppure in modo non impetuoso, arrivò fino al mare.Contesto politico e amministrativo
Il terremoto del 1805 sconvolse il regno di Napoli in un periodo particolarmente delicato. Gli anni della restaurazione borbonica, dopo la breve parentesi della Repubblica Partenopea, stavano per finire: agli inizi del 1806 il Regno fu di nuovo occupato dai francesi. Ebbe inizio il cosiddetto “decennio francese” caratterizzato dallo svecchiamento dell’apparato di governo, in cui furono inseriti istituti amministrativi francesi.
Gli uffici governativi maggiormente coinvolti nelle opere di intervento e di ricostruzione furono la Regia Camera della Sommaria (l’organo preposto alla gestione attiva dell’amministrazione finanziaria) e la Segreteria di Stato di Azienda in Napoli (che aveva competenza su tutta l’amministrazione finanziaria dello Stato), presieduta da Luigi de’ Medici.