Alluvioni dimenticate
Cosa sono le alluvioni?
Le inondazioni, o alluvioni nell’italiano corrente, sono le esondazioni di corsi o bacini d’acqua (fiumi, fiumare, torrenti, laghi, invasi) dovute a piogge intense, non sempre veri eventi estremi meteorologici, in relazione agli assetti territoriali interessati da tali corsi o bacini. Storicamente vi sono zone più esposte a tale calamità, in cui le alluvioni causano disastri gravi e ricorrenti alle persone e ai beni.
Un’alluvione trasporta grandi quantità di suolo e di detriti, di vegetazione e di materiali, a loro volta causa di costipazioni e di intralcio al deflusso delle acque di piena, accumulando danni a danni. Spesso alle alluvioni si accompagnano frane e smottamenti, delineando quadri di danno gravissimi, soprattutto nelle aree esposte a estesa cementificazione dei versanti montuosi collinari, o prive di aree non edificate a protezione dagli argini di golena.
In aree della pianura padana, la subsidenza (ossia l’abbassamento di alcune zone causato dall’ intenso pompaggio di idrocarburi, oggi maggiormente controllato) è considerata un fattore che concorre al rischio di alluvioni.
Per l’Italia le alluvioni sono un tipo di disastro storico ricorrente e grave, di cui si perde costantemente memoria.
NORD
- L’Arno invade Firenze il 3 novembre 1844
Poco più di un secolo prima della disastrosa alluvione del 1966, Firenze è invasa dalle acque. Prolungate e abbondanti piogge dalla fine di ottobre 1844 si abbattono su larga parte dell’Italia centro-settentrionale e su alcune regioni europee (Provenza e Pirenei in particolare). Nella notte tra il 2 e il 3 novembre i principali fiumi e i corsi d’acqua minori della Toscana settentrionale e orientale straripano causando danni ingenti soprattutto a Firenze e nelle campagne vicine, trasformate in laghi sterminati. Nella storia della città di queste alluvioni ce ne furono diverse e formano una memoria che non andrebbe smarrita.
A Firenze, fin dal giorno d’Ognissanti (1 novembre 1844), si temeva da un momento all’altro che l’Arno, già gonfio e minaccioso per le incessanti piogge dei giorni precedenti, straripasse allagando la città. Nella notte tra il 2 e il 3 novembre 1844 ci fu il collasso idrogeologico dell’intero bacino idrografico dell’Arno e dei suoi principali affluenti: il Sieve, che attraversa la vallata del Mugello; l’Ombrone Pistoiese, che bagna Pistoia; il Canale Maestro della Chiana, che attraversa gran parte della valle omonima; il Bisenzio, nei territori di Prato, Campi Bisenzio e Signa; Nievole, Borra e Pescia, che attraversano la piana di Lucca; e, infine, il Serchio, che dopo aver percorso la regione della Garfagnana e delle Alpi Apuane, termina la sua corsa nel Mar Ligure nella zona del Parco di San Rossore, pochi chilometri a nord di Pisa.
Nella notte del 2 novembre l’onda di piena raggiunse le principali vallate intorno a Firenze. Nel Casentino in provincia di Arezzo, dove nasce l’Arno, la furia delle acque ruppe ponti e mulini, allagando la rete stradale, che rimase impraticabile in buona parte per giorni e giorni. Nel Mugello, si ebbero i danni più gravi, in particolare nella zona di Borgo San Lorenzo, per le esondazioni del Sieve e di altri corsi minori. L’Ombrone devastò l’intera provincia di Pistoia, risparmiando miracolosamente la città di Pistoia, mentre il fiume Chiana inondò buona parte del territorio di Arezzo. I danni economici nella regione Toscana furono enormi, poiché l’ondata di piena distrusse o rese inutilizzabili per diverso tempo ponti, strade, mulini, case e terreni agricoli.
L’Arno in piena entrò a Firenze la mattina del 3 novembre 1844, travolgendo il ponte di ferro di San Niccolò, i cui rottami furono trascinati a valle dalla corrente, senza tuttavia danneggiare gli altri ponti.
Le acque a Firenze cominciarono a spandersi prima per rigurgito dalle fognature, che scaricavano nel fiume, e solo successivamente scavalcarono i parapetti, finendo per allagare il centro cittadino dalle zone delle porte di Santa Croce e San Niccolò. L’acqua dirompeva anche dalle finestre del piano terra delle abitazioni a ridosso del fiume. Furono estesamente danneggiati i magazzini della Dogana, che si trovavano nelle cantine degli Uffizi, Borgo Ognissanti, Piazza Santa Croce e la riva sinistra dell’Arno, verso la porta a San Frediano. La pioggia continuò a cadere incessantemente anche nei giorni successivi, fino al 9 novembre, complicando le operazioni di soccorso e ingrossando gli allagamenti che persistettero nei luoghi più esposti per giorni e giorni fino al 14 di novembre.
Solo verso la metà del mese di novembre le precipitazioni atmosferiche concessero una tregua, consentendo così a Firenze e agli altri luoghi danneggiati di riparare i danni causati dall’Arno e dagli altri corsi d’acqua. Per liberare i fondi stradali dal fango e dalle macerie fu attivato un servizio straordinario di pulizia delle strade e delle piazze e si provvide a restaurare e rialzare gli argini e i parapetti dei corsi d’acqua, rialzando anche il piano stradale, dove si rese necessario.
A Firenze, l’amministrazione comunale per prevenire successive inondazioni fece chiudere buona parte degli sbocchi fognari tra l’Arno e le abitazioni private situate lungo il corso del fiume, munendole nel frattempo di cateratte. Infine fu predisposto un registro per segnare ogni giorno l’altezza delle acque dell’Arno, le condizioni atmosferiche e altre informazioni utili per controllare lo stato del fiume.
Bibliografia
Aiazzi G. 1845, Narrazioni storiche delle più considerevoli inondazioni dell’Arno e notizie scientifiche sul medesimo, Firenze.”Gazzetta di Firenze”, Supplemento alla n.141, 25 novembre 1844, Resoconto dell’inondazione del 3 novembre 1844
Natoni E. 1944, Le piene dell’Arno e i provvedimenti dì difesa, Firenze
Ciullini R. 1966, Le piene dell’Arno, Firenze.
Losacco U. 1967, Notizie e considerazioni sulle inondazioni d’Arno in Firenze, Firenze.
Gazzetta di Firenze, 1844, ottobre e novembre - Piemonte 1948
L’area sud-orientale del Piemonte, compresa tra il fianco meridionale del Monferrato, la fascia bassa delle Langhe e il Po, per la gran quantità di torrenti che vi scorrono e la morfologia del territorio è spesso soggetta a eventi alluvionali. La natura dei terreni è prevalentemente sabbiosa sul versante collinare del Monferrato e argillo-porosa nel versante delle Langhe; inoltre è scarsa la vegetazione boschiva. Prolungate precipitazioni determinano inevitabilmente fenomeni di erosione di notevole entità e gravi danni ai terreni agricoli (Botta 1977).
È proprio ciò che avvenne nel settembre 1948. Una violenta pioggia si abbatté sulla zona nella notte fra il 3 e il 4 settembre e continuò intensa per il tutto giorno 4. Tutti i corsi d’acqua della valle del Tanaro si gonfiarono. A causa della gran quantità di detriti trasportati e dei materiali precipitati nei torrenti da numerose frane si formarono sbarramenti di fasciume alluvionale sotto le arcate dei ponti e si allagarono le campagne vicine al fondovalle. Nuove ondate successive di piena travolsero poi gli sbarramenti naturali e le acque rovinanti a valle allagarono altre campagne e centri abitati. Alba fu sommersa dai torrenti Cherasca e Talloria nella mattina del 4 settembre; il Borbore alluvionò Asti, mentre il fiume Belbo devastava con uno spesso strato di fango Nizza Monferrato e Canelli.
Le precipitazioni concessero una tregua molto breve, perché un altro nubifragio si scagliò sul Piemonte meridionale tra il 12 e il 14 settembre, peggiorando le condizioni delle zone precedentemente colpite e distruggendo le prime opere di riparazione e di soccorso. Tra il 4 e il 14 settembre, nella stessa zona caddero 250 mm di acqua nel bacino del Borbone, 350 mm in quello del Belbo, che equivalgano rispettivamente al 33% e al 40% delle precipitazioni che mediamente si abbattano in un anno sull’area, osservate nei 20 anni precedenti.
Ad Alba un centinaio di case furono rese inabitabili e alcune distrutte. Le fabbriche, per la maggior parte ubicate nel fondovalle, rimasero gravemente lesionate; il consorzio agrario fu invaso dalle acque e quintali di cereali si mescolarono alla melma. La ferrovia Alessandria-Alba fu interrotta in più punti. Ad Asti le acque del Tanaro invasero la parte meridionale della città e la stazione ferroviaria. Nizza Monferrato fu in parte sommersa dalle acque del Belbo e Canelli rimase completamente isolata, molte strutture enologiche furono inondate. Le frane ostruivano le principali vie di comunicazione per Savona e Alessandria.
Le vittime furono circa 50, i dispersi 80 e circa un migliaio gli sfollati; 10 ponti crollarono e 20 tratti di linea ferroviaria risultarono rovinati. Molti campi agricoli, in cui si coltivavano vigneti di fama internazionale, furono devastati: uno strato di fango alto fino a mezzo metro azzerò le pregiate colture e diverse cantine di produzione furono invase dalle acque, rovinando le scorte di vino.
SUD
- Palermo 1931
La città di Palermo sorge su una pianura affacciata sul mare e circondata da rilievi alti fino a 1.333 m. La piana è caratterizzata da una morfologia ricca di depressioni e rialzi ed è attraversata da quattro corsi d’acqua: il Canale Passo di Rigano, il Torrente Danisinni-Papireto, il Torrente Kemonia ed il Fiume Oreto, spesso deviati artificialmente. Queste caratteristiche rendono il capoluogo siciliano decisamente vulnerabile alla possibilità di alluvioni in caso di intense precipitazioni.
Tra il 21 e il 23 febbraio 1931, 50 ore di pioggia quasi ininterrotta precipitarono sulla città ben 395 mm di acqua piovana. Ma se teniamo conto anche delle piogge del giorno 20 e della giornata del 24 si arriva ad un totale di 618 mm in 5 giorni. L’intero centro cittadino e molte zone periferiche rimasero allagate. L’altezza raggiunta dalle acque in città variava dai 2 m di via Roma, ai 4m nella zona Danissinni-Papireto e fino ai 6m di piazza Santo Onofrio. I soccorsi alla popolazione arrivarono in diversi casi sulle barche e furono costruiti dei ponteggi galleggianti per l’evacuazione degli abitanti, come durante le massime maree della laguna veneta. I danni alle abitazioni e al patrimonio artistico furono notevoli, molte strade furono distrutte, alcuni tratti della linea ferroviaria divelti e diverse abitazioni rurali furono spazzate via dalle acque. Le vittime furono 10 e 21 i feriti.
Situazioni meteorologiche simili avevano già messo alla prova la città di Palermo, causando considerevoli danni ed allagamenti nel 1851, nel 1862, nel 1907 e nel 1925, ma mai nelle proporzioni del febbraio 1931, quando le precipitazioni furono davvero straordinarie. Soprattutto nel periodo autunno-invernale la città è ancora oggi bersaglio di forti nubifragi, ma, fortunatamente, un alluvione di tale portata catastrofica non si è più ripetuta finora. - Campania 1949 e 1954
Nella notte del 1° ottobre 1949 un violento nubifragio interruppe una lunghissima siccità che assetava la regione da ben sei mesi. La pioggia continuò intensa per tutta la mattinata successiva su vari territori del bacino del Calore e della pianura del Sarno, nelle province di Benevento, Avellino, Caserta e Salerno. Caddero circa 150mm di pioggia in poche ore, pari al 14% della media delle precipitazioni annue rilevate in quelle zone negli ultimi 20 anni.
Il fiume Calore e i suoi affluenti principali, il Tammaro e il Sabato in particolare, si gonfiarono rapidamente. Il Calore straripò in più punti e alzò oltre i livelli di guardia le acque del Volturno, nel quale confluisce presso Telese. Lo stesso Volturno straripò poi in più località nella pianura fino a Grazzanise, nel Casertano. Capua fu allertata dall’altezza che aveva raggiunto il livello del fiume.
Nella provincia di Benevento ci furono frane, inondazioni e crolli di case: 17 morti, circa 300 dispersi e 25 feriti. La parte bassa della città di Benevento – dove si concentrano le principali attività commerciali e industriali – fu invasa dalle acque del Calore, che allagarono anche il consorzio agrario, distruggendo le scorte di grano e di olio. La violenza dell’acqua causò il crollo alcuni edifici e 300 famiglie persero l’abitazione. Le strade rimasero “crivellate” di voragini e solchi e i binari ferroviari furono seriamente danneggiati in diverse località.
La provincia di Avellino non registrò vittime, mentre furono gravi i danni: diverse le case distrutte e 400 famiglie senza tetto. In provincia di Salerno i comuni più colpiti furono Nocera, con 10 vittime, Vietri sul Mare e Cava dei Tirreni. A Vietri una frana interruppe la linea ferroviaria, bloccando il traffico verso il Sud.
Solo un anno prima però, uno studio sullo stato del bacino idrogeologico del Calore avvertiva della situazione di disordine, incuria e pericolosità in cui verteva l’area, formata in larga parte da suoli molto erodibili e largamente disboscati (Botta 1977). Nessuna opera di prevenzione fu però approntata. E nel 1954 una nuova sciagura investì Salerno e la sua provincia: tra il 25 e il 26 ottobre una perturbazione assunse le dimensioni di vero e proprio uragano, che scaricò nell’arco dei due giorni circa 500mm di pioggia. Ci furono enormi frane e diverse alluvioni, le vittime tra morti e dispersi furono 303. - Calabria 1951 e 1953
Nel brevissimo spazio di due anni la Calabria meridionale fu investita da due fenomeni alluvionali disastrosi dalle caratteristiche molto simili.
Nell’ottobre 1951 una violenta perturbazione coinvolse le regioni meridionali della Penisola, violenti nubifragi si abbatterono infatti anche sulla Sicilia e sulla Sardegna, causando gravi danni. I fenomeni raggiunsero sulle province più meridionali della Calabria dei livelli eccezionali. Nella zona del massiccio dell’Aspromonte, in poco più di 100 ore caddero 1.770 mm di acqua, una quantità superiore alla media annua di precipitazioni. Addirittura nel giorno 16 di ottobre, a Santa Caterina di Aspromonte, nelle 24 ore si superarono i 535 mm d’acqua: un valore osservato raramente fino ad oggi nei paesi temperati o subtropicali (Fabiani 1952).
Precipitazioni così violente e prolungate ebbero conseguenze tragiche. I terreni che costituiscono questa zona sono formati da suoli che assorbono molto poco le acque, perché prevalentemente impermeabili, sono facilmente erodibili e non sono più coperti dal manto boschivo. Ingenti masse d’acqua cariche di detriti e di fango precipitavano dai rilievi verso il mare travolgendo e devastando ogni ostacolo sul loro cammino (Botta 1977). Molti centri dell’entroterra ubicati sulle sponde dei torrenti furono danneggiati; le comunicazioni stradali e telegrafiche furono interrotte in molti centri rurali e le comunicazioni tra le località sulla costa avvenivano via mare. Il bilancio ufficiale del disastro segnala 70 vittime, 780 case crollate e 900 gravemente lesionate in 67 comuni, 4500 senza tetto, la rete stradale interrotta in più punti, 26 ponti crollati e 77 acquedotti danneggiati.
Esattamente due anni dopo questa calamità, tra la sera del 21 e la mattina del 22 ottobre 1953, la Calabria meridionale, e in particolare il versante ionico della provincia di Reggio Calabria, fu colpita da un uragano di notevole violenza. Le precipitazioni continuarono intense per circa una settimana, peggiorando la situazione della zona interessata. In soli tre giorni, dal 21 al 23, si accumularono 200mm di pioggia, quando le medie dell’intero mese di ottobre ammontano a soli 70 mm. Si gonfiarono nuovamente i molti torrenti e le fiumare che dall’Aspromonte scendono verso il mare. Moltissimi furono i danni causati da frane e alluvioni. Si lesionarono le linee telefoniche, telegrafiche ed elettriche, isolando diversi paesi e rendendo difficili i soccorsi. Le vittime furono circa un centinaio, Reggio Calabria ebbe 3.500 sfollati, complessivamente furono 97 i comuni della regione danneggiati.
Le popolazioni colpite subirono ancora più duramente i danni causati da questa alluvione rispetto all’evento di due anni prima. Gli interventi di prevenzione seguiti al nubifragio del 1951 furono molto scarsi se non nulli, e molte delle baracche provvisorie, in funzione da due anni per accogliere i senza tetto dell’alluvione precedente, rimasero sepolte dalle frane e dalle acque senza controllo.