Nubifragi e rischio idrogeologico: il ruolo della memoria
Pubblichiamo un contributo di Gian Battista Vai, del Museo Geologico Giovanni Capellini
Alluvioni torrentizie e fluviali causate da eventi estremi di precipitazione atmosferica sono una norma anche per l’Italia, a causa della sua geomorfologia vivace, dei bacini idrografici assai frammentati, e dei ripidi versanti che convergono in piccole e strette pianure. L’abbondanza di rocce recenti e incoerenti che prevalgono nella penisola e in Sicilia, e rivestono anche la Sardegna, caricano di fango le acque dei nubifragi, innescando colate impetuose contro cui non c’è difesa. Per le alluvioni si conoscono ritmi di occorrenza undecennali, secolari, plurisecolari e millenari di precipitazioni estreme e piene conseguenti che possono aver luogo anche nell’intero Paese. E’ il caso delle alluvioni del Polesine (1951) e della Calabria meridionale (1951), o del Piemonte (2000) e della Calabria orientale (Soverato) (2000). Se guardiamo le cronache dell’ultimo ventennio, in Italia avviene una alluvione disastrosa (con oltre decine di morti e gravi danni) ogni due anni in media. Se applichiamo il filtro della storia, i ritmi menzionati sopra, con molte deviazioni, si concretizzano. E’ istruttivo ricordare che Firenze, prima della memorabile alluvione del 1966, era stata sommersa nel 1844 (all’apice di uno dei migliori governi mai sperimentati, il Granducato), e nel 1333; Pisa nel 1777, 1680, e 1167; Messina, prima del 2009, anche nel 1763; Palermo nel 1557; il Polesine, prima del 1951, anche nel 1152, e 950. Il riscaldamento globale quindi c’entra poco, o meno di altri fattori (se è vero che già nel 1861 in Sicilia viene descritto un tornado).
Se torniamo all’ultimo secolo, le aree alluvionate si ripetono con monotonia: Piemonte, Genova, Salernitano, coste di Calabria, Pianura Padana. Anche l’elenco fa capire che il fattore principale di evoluzione disastrosa, con morti e danni, a seguito di precipitazioni non solo eccezionali, ma anche semplicemente intense, è da ricercare nell’eccesso di urbanizzazione e nel disordine con cui è avvenuta, sia dove operano le mafie, sia dove, almeno tempo fa, non operavano. Non basta essere architetti per fare un buon piano di urbanizzazione, e neppure essere ingegneri per costruire capannoni industriali sicuri. Non basta avere eccellenti servizi geologici regionali se poi gli uffici di programmazione e di controllo delle stesse regioni (guidati, ovviamente da architetti) non ne utilizzano le cartografie e i rilievi. Tutti i corsi d’acqua italiani (fiumi, torrenti, rii, canali, scoli) almeno una volta per secolo escono dal loro alveo di piena. Se abbiamo tolto loro le aree fisiologiche di esondazione, le famose golene, per fare posto a fabbriche e case (con tanto di licenza edilizia), come potremo lamentarci? I fiumi, lo sapeva bene Luigi Ferdinando Marsili a fine Seicento, sono quasi organismi viventi. Se li soffochiamo, siamo noi ad avere fatto il passo decisivo verso il disastro. Prima o poi arriverà. Si immagini quello che accadrà dove la licenza edilizia non c’era. Capitò a Soverato, l’ultima perla dello Ionio in Calabria. Il camping aveva le insegne e i posti in alveo, alla confluenza di tre fiumare, secche per gran parte dell’anno e talora per molti anni successivi, ma turgide di falde di subalveo, sotto i poderosi ghiaioni, pronte a esplodere in un muro d’acqua e ghiaia in moto verso mare e che tutto travolgono, nella congiuntura meteorologica sfavorevole.
Qualcuno incolpa delle alluvioni l’abbandono della montagna. E’ vero il contrario. L’insediamento eccessivo nel passato abbatteva i boschi a favore dei seminativi, tagliava gli arbusti, favoriva l’erosione del suolo e lo impoveriva. L’abbandono postbellico della montagna ha prodotto una espansione forestale naturale imprevista, e stabilizzato molte pendici. Entro i prossimi cinquant’anni, mantenendosi le condizioni attuali, i calanchi dei colli bolognesi scompariranno, sommersi dalla vegetazione.
Per difendersi dalle alluvioni ci sono due soli rimedi efficaci, di tipo preventivo e educativo. (1) ripristinare gli spazi fisiologici di tutti i corsi d’acqua, con adeguate casse di espansione e laminazione delle piene, abbattendo l’edificato che si trovi sulle aree inondabili (da determinare non a tavolino ma sul campo con analisi geologica specifica); (2) ripristinare la memoria delle passate alluvioni e farne oggetto dei progetti didattici delle scuole locali e dei piani di protezione civile territoriale. Per fare tutto ciò non bastano ingegneri idraulici, che debbono avere più voce in capitolo degli architetti del paesaggio. Occorrono al vertice della piramide i geologi, i soli a possedere le competenze per impostare sperimentalmente il problema, e la mentalità adatta a percepire immediatamente le trasformazioni temporali storiche e preistoriche del territorio.
A proposito di geologi, e dei loro cugini geofisici della Terra solida, la recente riforma universitaria Gelmini e la sua applicazione ancor più limitativa adottata da molti rettori stanno provocando una vera moria di Dipartimenti di Scienze della Terra (e dizioni geologiche analoghe). Che questo possa avvenire in paesi non montuosi e privi di rischi geologici, dispiacerà, ma non è troppo grave. Ma che questo avvenga in un Paese geologicamente giovane e pericoloso come l’Italia (vulcani, terremoti, alluvioni e frane, appunto), più che un controsenso è una idiozia. Che poi avvenga in Emilia-Romagna e a Bologna, dove nel 1603 Ulisse Aldrovandi ha inventato la stessa parola geologia, è emblema di disfatta culturale, prima che disciplinare. Una vergogna.
Va rapidamente modificata la norma che richiede almeno 40 o 45 docenti per costituire un dipartimento (che ha autonomia di ricerca e di collaborazione col mondo produttivo). Anche perché alcuni dei migliori dipartimenti di Scienze della Terra del mondo di docenti ne hanno solo 30 o 35.
Lo stesso discorso vale a livello nazionale per l’area disciplinare CUN-04 (geologi e geofisici appunto) che per essere numericamente la più piccola in Italia rischia la cancellazione nella mente di qualche riformatore pseudo-illuminato. Come se fosse il numero il criterio di valutazione della qualità di un’area e della sua necessità per le esigenze vitali del Paese. Quella cancellazione va evitata, senza alternative, se vogliamo avere qualche prospettiva di mitigare in futuro prossimo i gravissimi rischi geologici del Paese Italia, e ridurre il pesantissimo drenaggio di risorse nella rifusione di danni e vittime nell’emergenza.
Infine c’è un problema spinoso di comunicazione del rischio e di allerta/allarme alle popolazioni. Non è assolutamente semplice. Soprattutto in caso di alluvioni torrentizie (piccoli bacini imbriferi per intense precipitazioni), nonostante i progressi nelle previsioni meteorologiche e nei relativi allarmi.
Quando ero ragazzo, al mio paese, il miglior allarme per incendi e terremoti erano le campane. In attesa che la Protezione Civile Nazionale inventi un allarme sui telefonini, c’è un problema di allerta decentrata. Ha ragione Gabrielli a invocare la resilienza nelle popolazioni colpite. In parole semplici “aiutati che il Ciel t’aiuta” (con la Protezione Civile al posto del Cielo) o “datti da fare”. Ma senza lunga e costante azione educativa, in gran parte d’Italia la resilienza non si svilupperà. E’ sempre solo colpa di qualcun altro.