Emilia: quale modello di ricostruzione?
Qual è il modello emiliano di ricostruzione in corso?
Intervista a Marina Foschi
Chi è Marina Foschi?
Quando ancora non esisteva il Ministero dei Beni Culturali, questa riservata e competente signora architetto, con il collega Sergio Venturi ha dato vita in Emilia Romagna a un importante e unico archivio fotografico con relativo catalogo, riguardante dapprima gli insediamenti sparsi nell’Appennino. Successivamente, con la nascita dell’Istituto regionale per i beni culturali (IBC) e i corsi per gli operatori dei censimenti, il catalogo ha avuto come oggetto di indagine i centri storici e i numerosissimi beni architettonici sparsi nella pianura e sui monti dell’Emilia e della Romagna: chiese grandi e piccole di paesi e borghi, o isolate, torri, campanili, case rurali, centri storici vivi, con i loro inconfondibili caratteri di preziose radici identitarie per intere popolazioni fino ad oggi. Edifici, ma non solo edifici, piuttosto il senso dei luoghi, il profilo di un paesaggio vero e vissuto, di una cultura dell’abitare, del vivere e del lavoro che sono ancora un volto alla regione.
Erano gli anni Settanta del Novecento e la regione Emilia Romagna, prima in Italia, aveva realizzato appunto l’Istituto per i Beni Culturali, il glorioso IBC. Questo Istituto fu fondato da Guidi Fanti su progetto di Andrea Emiliani, grande storico dell’arte e infaticabile organizzatore di attività per la tutela del patrimonio nel contesto architettonico e storico, che tuttavia non ne assunse mai la presidenza, essendo soprintendente. Ma la sua guida ha continuato per anni, con la collaborazione iniziale di Lucio Gambi, il fondatore della geografia storica in Italia, di Pierluigi Cervellati, il maestro del recupero dei centri storici, e di Giuseppe Guglielmi, concentrando quindi competenze e “teste” eccezionali.
Degli oltre 100.000 documenti fotografici e iconografici raccolti e di quelli elaborati nell’IBC da Venturi e Stanzani e in gran parte informatizzati, è ora “conservatore” Stefano Pezzoli.
L’IBC ha poi mutato la sua identità istituzionale, fissate da delibere regionali che ne hanno mutato in parte il ruolo, orientandolo verso i beni archivistici e librari.
Marina Foschi ha continuato per anni a promuovere i censimenti degli insediamenti sparsi con la collaborazione delle province e a seguire i processi conservativi delle strutture architettoniche, sia nello studio delle tecnologie storiche, sia rispetto al rischio sismico, in convenzione con il Dipartimento di Costruzioni di Firenze diretto allora da Salvatore Di Pasquale. Ha anche tenuto a Modena dal 2002 al 2005 un corso di Storia dell’architettura rurale nel paesaggio, per la Facoltà di Scienze dei beni culturali. Attualmente Marina è presidente regionale di Italia Nostra.
Per queste esperienze davvero particolari, che costituiscono il suo entroterra professionale e culturale, è interessante sapere la sua opinione sull’attuale ricostruzione in corso in Emilia, che ha oggi numerosi centri storici danneggiati.
E poi ci sono le chiese e i campanili puntellati, fasciati o demoliti, una situazione che desta molte perplessità e non poche preoccupazioni, di cui non sono noti con precisione i dati.
Cosa ha pensato quando è avvenuto il terremoto del 20 e 29 maggio 2012? Se lo aspettava?
Alla prima scossa, sentita da Forlì, non immaginavo certo che l’epicentro fosse così distante e di tanta intensità. Che l’area fosse sismica ormai era noto, ma localmente non c’era consapevolezza, né esperienza, per la distanza temporale degli eventi precedenti. Alla seconda scossa, sempre avvertita a distanza, la preoccupazione è andata al patrimonio già lesionato e privo di qualsiasi intervento. Tecnici amici si trovavano sul posto al momento e diventava sempre più arduo coordinare le azioni. Ripensando alle difficoltà organizzative del polo regionale, bisogna anche considerare che solo pochi giorni prima (il 18 maggio) erano cambiate le regole della Protezione Civile e la Regione doveva ancora creare nuove strutture.
Il 22 novembre, a sei mesi dal terremoto, la Regione ha presentato la prima bozza di legge che dovrà regolamentare la ricostruzione e che dovrà essere approvata entro dicembre 2012. Quali sono gli aspetti positivi di questo disegno per la ricostruzione?
I tempi promessi sono stati rispettati e le enunciazioni della Relazione Regionale sono condivisibili: volontà di conservare siti e memoria storica, non città nuove come all’Aquila.
Quali sono i limiti e i problemi maggiori che a suo parere questa proposta di legge pone?
Gli articoli, invece, smentiscono progressivamente questi enunciati e il problema maggiore consiste nella mancanza in questo caso di una solida spalla ministeriale che in Umbria e Marche dopo il terremoto del 1997, ad esempio, aveva consentito pronti interventi di immediata efficacia sul patrimonio vincolato e indirizzi chiari anche per il resto dei centri storici.
Limiti e problemi emergono soprattutto negli articoli 4 e 8 della legge. L’Art. 4. Centri storici, nuclei storici non urbani ed edifici vincolati, prevede al comma 4 la decadenza della disciplina di tutela per gli edifici vincolati di interesse storico architettonico “nel caso in cui siano interamente crollati a causa del sisma ovvero siano gravemente danneggiati e non recuperabili se non attraverso demolizione e ricostruzione”; l’Art. 8, Piano della ricostruzione, facoltativo, disciplina: le trasformazioni urbanistiche, gli incentivi e le misure premiali come incrementi di volume, le modifiche alle previsioni cartografiche e normative della pianificazione vigente, in spregio ai Principi generali della ricostruzione enunciati all’art. 2 della medesima proposta di legge.
Cosa significano nei fatti questi enunciati? Tutelano o aprono nuove situazioni?
Le combinate disposizioni possono consentire la demolizione e ricostruzione anche difforme, in quanto per legge (ma in modo illegittimo!) verrebbe abolita la precedente tutela e questa libertà che alcuni amministratori e professionisti vorrebbero rivendicare sembra diffondersi anche al patrimonio tutelato dallo Stato nella debolezzadi risorse e di decisioni del Ministero.
Addirittura, in questo contesto il Piano della Ricostruzione rischia di essere lo strumento per superare velocemente le tutele dei piani vigenti e consentire il ripensamento “innovativo” di interi quartieri dei centri storici.
Lo stesso timore si estende al Territorio rurale (Art. 6), che si rifà al citato Art. 4 per gli edifici vincolati, anche se gli interventi di demolizione e ricostruzione sono subordinati all’autorizzazione prevista dal Codice dei beni culturali. Tuttavia, un Comune può consentire – e fare finanziare – l’accorpamento dei fabbricati aziendali e la delocalizzazione di quelli non più funzionali in aree messe a disposizione, ossia un finanziamento ulteriore in mattoni, che non tiene conto del disegno del paesaggio agrario. Questa norma diviene poi obbligatoria negli ambiti destinati ad opere pubbliche, anche lineari, come la Cispadana (ossia il progetto di una nuova autostrada regionale di km 67), consentendo di pagare con il denaro della ricostruzione parte dei costi di esproprio!
Il paventato rischio di perdere per sempre in questa delicatissima fase la volontà di ricostruire il patrimonio colpito dal sisma conservando tutti i suoi peculiari caratteri storici edilizi, non dovrebbe, a mio avviso, lasciare spazio ora a “dotte disquisizioni” sul reale peso di questa modalità d’intervento. Si tratta certamente di un dibattito da affrontare in altre sedi. Ma adesso abbiamo alle spalle una sorta di sciacallaggio morale, che nel momento dell’emergenza ha messo di fronte la disperazione di chi era costretto fuori casa e la doverosa tutela di un patrimonio storico prezioso, divenuto pericoloso.
Ora che le zone rosse sono state in gran parte rimosse e le persone in qualche modo sistemate, il principio della tutela deve prevalere rispetto alle ambizioni di poteri ecclesiastici e locali, che intendono approfittare della scarsità di risorse pubbliche per realizzare nuove opere: NON è questo il senso, neppure economico, della ricostruzione!
Imbarazzante è poi l’evidente sopravvalutazione dei costi di riparazione, restauro e ripristino, che sembrano inibire questi interventi certamente meno dispendiosi della demolizione e ricostruzione (in molti casi anche delle sole impalcature di puntellamento). Insieme con l’espansione dell’area che rivendica rimborsi, questo fenomeno italiano rischia di frenare gli stessi finanziamenti (si veda quanto è già accaduto per i danni da neve…).
Qual è il livello di dialogo possibile in questa fase con il legislatore regionale?
Abbiamo poco tempo per inserire correttivi, dal momento che la legge dovrà essere varata in meno di un mese, ma cercheremo come Italia Nostra di chiedere con forza poche cose essenziali, contando anche sull’atteggiamento positivo riscontrato nelle affermazioni di una parte dei sindaci dell’area colpita, i quali più ancora delle Soprintendenze, reclamano la ricostruzione dei loro centri storici.
Esiste un modello emiliano di ricostruzione?
Proprio questo dovrebbe essere il modello emiliano della ricostruzione: ossia la sensibilità di amministratori che riconoscono nella tradizione e nella conservazione del patrimonio storico architettonico un obiettivo posto alla base della pianificazione territoriale e considerano innovazione un cambiamento necessario, rispetto alla deriva incombente, che ponga la cultura del territorio come principale fattore anche dell’economia.
Ma realizzare questo spirito, questa visione della nostra regione, implica una chiarezza di obiettivi che è invece continuamente contraddetta tanto nel progetto di legge regionale, quanto nei dibattiti in corso.